"E se fosse un tuo amico?"
Quando ciò che condanniamo è vicino a noi: cura e dinamiche di potere.
[userò il termine ‘abuso’ come termine ombrello per evitare sia di ripetere troppe volte tanti termini e per evitare la ripetizione di trigger quando non necessario, perché in ogni caso l’argomento di per sé è triggerante quindi insomma direi che tanto non serve alimentare nulla]
Facile è riconoscere e condannare una situazione abusante quando non conosciamo i diretti interessati;
Più difficile quando siamo noi i soggetti che ricevono abusi;
Quasi impossibile riconoscere noi come abuser;
"Complicato” sembra essere quando la persona che viene accusata (anche da più individui) è qualcuno che conosciamo, qualcuno della nostra cerchia stretta, qualcuno che amiamo e/o idolatriamo.
Dico “complicato” tra virgolette perché in realtà quello che avviene, secondo me, è tutto un insieme di paure, paranoie ed intenzioni che hanno più a che fare col fatto che veniamo educat* al giudizio ed all’accusa, non alla protezione e gestione della situazione nel modo più collettivo possibile (gestire, tra l’altro, è diverso dal controllare). Quello che avviene in noi è un miscuglio emotivo a cui però viene richiesto un taglio netto: o questa persona la condanni pubblicamente ed interrompi subito il rapporto che hai con lei, oppure non dici nulla ed a questo punto sei complice in ogni caso. Ragione o torto. Buono o cattivo. Integrità o complicità.
Queste dinamiche testimoniano quanto il relazionarsi sia il fulcro di ogni nostra elaborazione di princìpi, di come esse siamo alla fine il metro misura della nostra radicalizzazione ma al tempo stesso della nostra alienazione attuale e della paura crescente di rimanere sol*. Per questo io consiglio, così come è stato consigliato a me in passato, di leggere All About Love di bell hooks, perché ciò che ho capito, almeno per quanto mi riguarda, è che un grande vuoto nel modo in cui qui portiamo avanti la lotta è che toglie completamente il ruolo dell’Amore (inteso non romanticamente) dal nostro processo di radicalizzazione.
Perciò quello che sto per elencare è una serie di reminder per ricordarci alcune cose che spesso dimentichiamo quando parliamo di dinamiche di abuso, soprattutto per coloro che si aggrappano alla minima percentuale delle false accuse o negano la sistematicità delle violenze.
1. Credere subito ad una persona che dice di aver subito abusi NON è sinonimo di condannare la persona accusata a priori
Si continua a confondere la priorità di proteggere una persona che dice di aver subito abusi col voler eliminare la persona ritenuta abusante. Questo perché la mancanza di conoscenza delle sfumature di significati che acquisiscono determinate parole (che poi si tramutano in azioni) comporta poi l’utilizzo di una sola parola per indicare un insieme di azioni che però sono molto diverse, agevolando le dinamiche di oppressione già presenti. In questo caso, il pensare che proteggere sia sinonimo di controllare e/o di eliminare il problema.
Proteggere significa mettere al centro la sicurezza del soggetto che ha bisogno di protezione, che a sua volta non significa renderlo vittima di quello che sta accadendo intorno a lui, ma dandogli degli strumenti per sentirsi il più al sicuro possibile. Non riguarda la persona accusata di essere abuser perché, ricordiamocelo, non devono essere al centro dei discorsi. Chiedersi continuamente il perché una persona “arrivi a tanto” ecc, è controproducente e, personalmente, stupido, poiché è la costante illusione di negare che esista la banalità del male, illusione grazie alla quale continuiamo a non voler vedere, sentire o parlare di responsabilità quando si parla di oppressioni sistemiche.
Perché anche se non è accaduto quello che la persona sostiene, quindi falsa accusa, non è detto che non sia avvenuto qualcosa.
A volte le persone si fanno avanti al posto di chi effettivamente ha subito qualcosa. A volte c’è un disagio rispetto ad una persona che non si sa esprimere se non in questo modo. A volte succede qualcosa che non era così grande ma il fatto che nessuno ascolta rende l’accaduto qualcosa di traumatico. A volte le false accuse possono essere persone non ascoltate per mancanza di prove o altro. Parlare dunque di false accuse comporta tenere anche conto di un insieme di casi in cui non è detto che non sia avvenuto qualcosa.
2. Credere ad una persona (o più) che un* nostr* amic*/parente/partner/idolo ecc. ha avuto o ha comportamenti abusanti nei loro confronti NON significa necessariamente interrompere i rapporti con questa persona
Realizzare che qualcuno vicino a noi possa aver compiuto comportamenti abusanti ci dà delle possibilità. Se non ce la sentiamo, o sappiamo che quella persona ha compiuto qualcosa che non siamo in grado di gestire, liber* di allontanare questa persona dalla propria vita o momentaneamente.
Quello che sicuramente si ha tra le mani è la possibilità di essere il filo conduttore, il filtro attraverso cui far riflettere la persona accusata di abusi su quello che ha fatto. Si possono manifestare i propri princìpi in maniera radicale senza necessariamente interrompere il rapporto con qualcuno che è andato contro di essi: come? Puntando alla comprensione delle proprie responsabilità e non sul paradigma giusto/sbagliato, buono/cattivo. Il punto non è far sbagliare meno le persone, quanto che esse sappiamo che cosa hanno sbagliato e che cosa avrebbero potuto fare in alternativa.
Ripeto: dipende dalle nostre possibilità cogliere queste occasioni, basta ricordarsi che se non diciamo nulla solo quando l’abuser è qualcuno vicino a noi, forse non siamo meglio di tante altre persone. E’ una scelta che non giudico, ma, come ho già detto, comporta delle responsabilità.
So che questo punto sarà controverso per molte persone, soprattutto per chi oggi vive dimensioni abusanti e non viene mai ascoltat*.
La mia è una riflessione a freddo che nasce dall’osservare tutti gli ostacoli che vedo nella creazione di spazi safe perché si ha l’illusione di renderli perfetti, quando non lo potranno mai essere perché ognuno di noi:
- la merda che ognuno di noi vive nel quotidiano è diversa
- la mia merda può essere la cosa che serve ad un* altr* per stare meglio e viceversa
- affronta la propria merda in maniera diversa e con tempi diversi
Certo che dobbiamo tutelarci il più possibile. Per questo ritengo che fare terra bruciata attorno alle persone al minimo errore non è efficace; la strategia che trovo più utile è quella della radicalizzazione dei princìpi attraverso i rapporti umani. Non significa non prendere posizione: significa utilizzare la propria voce e le proprie connessioni per poter sperare in un cambiamento vero e proprio.
Ovviamente io parlo di queste proposte come primi approcci; se una persona continua ad avere atteggiamenti abusanti e distruttivi all’interno di una rete di relazioni, allora è giusto e legittimo che le persone coinvolte difendano la propria pace come meglio credono.
Questi due punti che ho elencato si poggiano su un terzo punto, il più importante ed il più difficile da digerire:
OGNI RELAZIONE DI CURA COMPORTA DELLE DINAMICHE DI POTERE
questa è un’affermazione di Meth (@methdodi_ci) che è uscita durante l’incontro a cui sono stato invitato a Torino ad inizio giugno presso il Maurice, insieme a Sofy (@not_sofy) ed Antonio (@antonio_vercellone). Il tema dell’incontro era anarchia relazionale e il diritto, come poter riuscire a tutelare ogni tipo di relazione al di là delle norme, senza però ricadere in categorizzazioni ed automatiche esclusioni di alcune persone per necessità di semplificazione.
La Cura è ciò attraverso cui costruiamo le comunità: ognuno prende il suo ruolo nel prendersi cura di specifici elementi necessari affinché, teoricamente, a nessuno manchi nulla. E’ ovvio che, andando più sul personale e nel dettaglio, ci sono situazioni (temporanee o no) in cui alcune persone hanno più bisogno di supporto rispetto al poterlo dare.
Per questo è necessario per me ripartire dall’antiabilismo ed antisanismo: le persone disabili conoscono meglio di chiunque altro cosa significhi dipendere dalle altre persone e come queste dinamiche comportino per loro anche dei ricatti, alimentando la loro dipendenza dalle altre persone al prezzo però di essere considerate sempre come un fardello e non valide a livello politico.
Le dinamiche di potere si annidano nelle relazioni di cura perché semplicemente noi abbiamo bisogno di sentirci parte di qualcosa o comunque sentiamo la necessità di essere utili, di avere un posto nel mondo.
Ritornando al punto di partenza: non si tratta di eliminare dinamiche di potere a priori, ma di pensare a come poter gestire, tutelare ed intervenire quando esse diventano preponderanti e sistemiche.
Perché ogni oppressione comincia dalle nostre relazioni.